“Costruito con un lungo flashback, il più radicale, pessimista e inventivo film di J. Carpenter è fondato sulla compenetrazione tra realtà e fantasia e diventaun apologo sulla potenza della scrittura. Apocalittico, ma non privo di ambiguità né di ironia, ricco di invenzioni registiche, scenografiche, sonore (colonna musicale curata dal regista), sapiente nel suggerire l’orrore senza mostrarlo, è una metafora allarmante sull’abominio della società dello spettacolo e una riflessione critica sul genere cui appartiene.” – Morando Morandini
Questa è solo una delle tante frasi di elogio che furono fatte nel 1995 al film di Carpenter “Il Seme della Follia” ultimo capitolo di quella “Trilogia dell’Apocalisse” che l’Associazione Ionio ha proiettato per il suo Cineforum.
Il film narra della vicenda in cui verrà, suo malgrado, a trovarsi John Trent (Sam Neill) agente assicurativo chiamato a indagare sulla recente scomparsa dello scrittore Sutter Cane (Jurgen Prochnow), le sue ricerche lo porteranno ad indagare ad Hobbe’s End, dove l’incontro con lo scrittore cambierà la visione di sé stesso, della realtà che lo circonda e porterà John a scontrarsi con la con la sua stessa follia (in fondo presente in ciascun essere umano, razionale o irrazionale che sia) trasportato in un piccolo paese sconosciuto dove inizierà il cambiamento degli esseri umani per mano del demiurgo Sutter Cane.
Carpenter riesce in questo film a narrare quel terrore cosmico tanto caro a Lovercraft. E’ un terrore cosmico che coinvolge non solo John con la sua razionalità ma anche il mondo del film e la realtà che vive lo spettatore, costruendo una strana struttura circolare che ci fa ritrovare nel finale, sulla poltrona di un cinema di provincia a fianco di John Trent.
E noi proprio come lui ci ritroviamo partecipi del film come spettatori ridendo e disperandoci della fine di un mondo, rendendoci conto di come anche noi in fondo subiamo le influenze di uno scrittore, di un dio, di qualcuno che aveva la fede di credere in ciò che fa e che cambia per sempre il nostro modo di guardare le cose in bene o in peggio e entra nel nostro modo di pensare, di riflettere distruggendo una nostra convinzione.
E sembra proprio che Carpenter distrugga come Sutter Cane il suo mondo, la sua umanità cinica e senza speranza alcuna, la cui unica testimonianza (di sconfitta naturalmente) rimane il cinema, come se quei fasci di luce proiettati sullo schermo non fossero altro che l’estremo congedo dell’essere umano, la testimonianza che il suo tempo è ormai finito.
Carpenter imprime su pellicola la storia della fine del mondo, anzi, del suo definitivo cambiamento. Il Cambiamento non viene da una guerra o da una invasione, non da mostri che vengono dall’Antartide e nemmeno da un anti-Dio: ma semplicemente da uno scrittore che ha intuito che la forza di un libro può andare oltre la pagina scritta. La scrittura, se ci si crede, può diventare una fede e un libro un pilastro della religione. Lo scrittore si trasforma o prende più semplicemente coscienza del suo essere demiurgo, una persona capace di cambiare il mondo a suo piacimento.
Un film ambizioso, complesso e stratificato, dove il termine horror diventa solo una scusante per etichettare un prodotto che in realtà riesce ad andare oltre i generi, forse addirittura oltre il cinema stesso.